La svolta societaria della Sampdoria e il rispetto che non c’è da parte di nessuno, in primis dai tifosi, anche quelli sampdoriani…
Non so come andrà a finire la situazione societaria della Sampdoria. Troppe le variabili, che si intersecano con un andamento sportivo allarmante come mai da tanti anni.
Allo stato, le possibilità sono tre, quasi quattro.
La prima, il ritorno allo “status quo ante”, cioè il ripristino della proprietà in capo a chi, formalmente, ne risulta ancora titolare: alcuni parenti dell’ex presidente.
La seconda è la mancanza di alternative, e quindi la prosecuzione dell’attività tramite il CdA attualmente in carica e, quindi, secondo il medesimo cliché. Sappiamo anche già come potrebbe andare a finire.
Poi la terza, l’intervento salvifico, quasi messianico, di chi – cedendo a suo tempo il pacchetto proprietario – aveva proclamato (e in più di una circostanza) che – nel malaugurato caso che… – avrebbe vestito i panni del cavaliere salva principesse.
La quarta, la più desiderata, la meglio ambita, la preferita nei sogni e nelle visioni, il passaggio definitivo di mano.
Però, anche qui. Arabi? Americani? Famiglie? Fondi?
La cessione della Sampdoria merita maggior rispetto…
La svolta societaria della Sampdoria e il rispetto che non c’è
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Un ago – devo rilevare – cuce trasversalmente ognuno di questi fattori. Un segno traspare forte dagli animi di una tifoseria poco incline al pianto e alla rabbia. È il cambio di paradigma, vorrei definirla – senza offesa – “altrespondizzazione” dell’attitudine tutta blucerchiata al tifo come gioia e festa, colore e luce, trasmigrazione verso la recriminazione e la cupezza gotica.
Personalmente non prendo posizione. Attendo gli eventi e nel frattempo mi sento più sampdoriano che mai. Facile esserlo quando le cose vanno bene. Il marinaio si esalta soprattutto nelle tempeste.
Resto però colpito dai toni per nulla concilianti, sempre aggressivi, innaffiati da un pessimo e offensivo sarcasmo, di noi doriani, oggi girati – chissà perché – in guelfi e ghibellini.
Non mi riesce di comprendere cosa possa muovere chiunque ad attaccare, a prescindere, in termini perentori, drastici, non negoziabili, chi si fa portatore di notizie o anche solo di posizioni diverse. Perché, perché, perché attaccare a testa bassa? Perché caricare come arieti? E perché denigrare, vilipendere, offendere, fare del sarcasmo – il cugino rabbioso, irriguardoso e sfigato dell’umorismo – da quattro soldi?
Manca il rispetto. Manca la capacità di rispettare la posizione dell’altro senza violenza, verbale o di altra natura. E, a monte e a valle della presenza di tifosi di altre squadre, che meglio farebbero ad inventariare le proprie, innumerevoli disavventure e figure barbine, di questi eccessi si rendono protagonisti e complici molti sampdoriani.
Sampodiriani che invece – pur nello scetticismo (lecito), pur nei panni di San Tommaso detto Didimo (assumibili), pur nella lista degli apoti (quelli che non la bevono, come disse esattamente cento anni fa Giuseppe Prezzolini) – dovrebbero fermarsi a pensare: ma siamo gli stessi che, in Gradinata e ancor più in trasferta, stiamo dando spettacolo da inizio campionato?
Quelli che, magari, cantano uno vicino all’altro e in settimana, dietro la maschera di una tastiera, vomitano negatività su chi, semplicemente, vuol credere a qualcosa di diverso e migliore?
Quel rispetto che non vedo in chi si sente originale storpiando dopo mesi e mesi Al Thani in Antani o in chi aggredisce – per fortuna solo verbalmente – giornalisti di sampdorianità provata e inconcussa fuori dallo stadio.
Ma ce n’è per l’asino e per chi lo mena. A proposito: io me lo sono menato.